Sport, disabilità e fatica: lezioni di vita
Sono a Pergine, è un sabato pomeriggio molto bello, soleggiato ma non caldo, è il 9 settembre e sono su una handbike che mi hanno prestato per fare questa gara. È la prima volta che la uso; a dire il vero l’avevo già provata altre volte, ma per qualche decina di metri, nel garage di un amico tanto per provare. Ma oggi no, sono iscritto al 14° Trofeo città di Pergine: una gara per handbike, le biciclette che si pedalano con le braccia, fatte per i disabili.
Il giro di riscaldamento mi ha già dato buone indicazioni sul percorso e sulla mia condizione: quello che sembrava un giretto “in piano” si è rivelato un percorso ostico, con curve a gomito e ripartenze continue, con salite nascoste e la mia condizione non può certo dirsi “atletica”. Ma ormai che ci sono provo a fare del mio meglio. Lo starter dà il via e il 14° Trofeo Città di Pergine è partito. Come si fa spesso per le gare su circuito, vi racconto il mio giro.
1. Nel tratto di via Maier, leggermente in discesa, meglio non forzare e riposare le braccia, tanto là in fondo c’è una delle poche curve che permette di lasciar correre ma comunque non la si può affrontar ad una velocità eccessiva altrimenti si vola via. Ecco, la parte comoda del percorso è già finita dopo soli 400 metri.
2. Ora via Bortolamei, che porta in piazza Municipio, è leggermente in salita e l’ingresso in piazza avviene con una curva a gomito verso sinistra.
La pavimentazione in porfido è più usurata di quella in via Maier e si sente.
3. Qui si deve rilanciare e cercare anche di risparmiarsi lungo la pianeggiante via Pennella. La gente sul circuito mi applaude e mi incita.So bene che i primi sono avanti anni luce e che il gruppo è già passato da alcuni secondi. Io sorrido e ringrazio e cerco di rispondere con qualche battuta. Dissimulare lo sforzo è abbastanza facile fino ad arrivare “all’Alba”, in piazza Gavazzi, dove un’altra curva a 90° ci immette su Corso degli Alpini.
4. Qui inizia la fatica! La strada è ben asfaltata e per fortuna le ruote girano bene ma è leggermente in salita, forse un 2%, che pian piano sembra la rampa di un garage. La catena è in tensione e nei ruotini aumentano il numero di denti. Non voglio arrivare a usare l’ultimo: so che dopo sarà peggio. Tengo duro e cerco di aumentare un po’ la quantità di moto (quella cosa che comunemente chiamiamo inerzia) che è la mia unica alleata visto che i chili di troppo li ho ancora tutti addosso. D’altronde sperare di aver perso del peso dopo appena un chilometro dalla partenza è impensabile. Il sudore inizia a comparire e gli addetti al percorso con le loro bandierine arancioni mi incitano. Mi aiuto anche con il busto e finalmente arrivo all’incrocio con via Chimelli dove passo col rosso. Col vigile che sta regolamentando l’incrocio ci scherzo su: anche nel giro di riscaldamento c’era il rosso e lo vedrò un’altra volta prima di passare con il verde.
5. Finalmente un po’ di piano e addirittura, nei pressi di via Crivelli, un po’ di discesa. Ma non è il momento di rilassarsi: riposate per qualche pedalata le braccia, faccio la curva e passo dall’asfalto ai cubetti di porfido dove devo fare una curva molto chiusa per non entrare in qualche negozio.
6. Subito via Crivelli inesorabilmente ed esponenzialmente inizia a salire, su e su fino al “Marcadel” (via Fabio Filzi). Qui arrivo in pratica fermo, con il rapporto più leggero che ho. La corona piccola l’avevo già messa passando davanti al Teatro prima, in corso Alpini, altrimenti non arrivavo al semaforo rosso.
7. Ora mi spingo fino all’incrocio con via Pive che almeno non è pavimentata a porfido. Qui un nutrito numero di persone sta assistendo alla gara e mi incitano. Qualcuno mi conosce e scherza chiamandomi per nome. Anche qui scherzo in qualche maniera ma dissimulare la fatica ormai è impossibile.
8. Salgo su per via Pive e alcune ospiti della fondazione Montel sulle loro sedie a rotelle mi incitano. Sento il rombo di una moto: “Ma non era chiusa al traffico ‘sta via?” mi chiedo. È il primo in gara. Faccio 2 conti: un giro 3 km, qui saremo al secondo… “In 5 chilometri mi ha doppiato!” Appena formulo questo pensiero lui è già sparito dietro l’angolo in via Chiesa.
9. Ci arrivo anch’io e finalmente posso mettere la corona grande. Non c’è nessuno davanti, pista libera e posso portarmi verso via San Pietro dove sarà discesa fino al traguardo, passando la “S” dell’incrocio con via 3 Novembre.
10. Stando attenti al veloce “destra – sinistra” di Piazza Mario Garbari arrivo nuovamente in via Maier. Passo sotto il traguardo. Del concorrente davanti a me non c’è traccia e forse nemmeno nella memoria visiva di chi è lì per assistere alla gara. Cerco di capire come sto. Prima della partenza, dopo il giro di riscaldamento mi sono detto: “Questa è tosta, proviamo a fare almeno un giro senza piantarci, poi vediamo”. E guardando bene forse ce n’è ancora. Sarà perché ormai sono caldo, sarà per quel briciolo di agonismo che comunque hai in una gara, riesco ancora a spingere.
Riuscirò a fare altri 2 giri prima che la mia gara sia conclusa perché il primo è arrivato e tutte le posizioni doppiate sono congelate. Sono soddisfatto nonostante i soli 3 giri completati su 5: dietro di me sono arrivati altri 4 concorrenti e addirittura negli ultimi 2 giri sono riuscito a non mettere la corona piccola. Però che faticaccia.
Arrivano anche gli ultimi. Gli altri già arrivati sono radunati intorno al ristoro per prendere dell’acqua, chi è arrivato si appresta ora a farlo. Io vado e parcheggio la mia handbike dove non da ingombro. Scendo e mi incammino per prendere anch’io dell’acqua.
Sì, lo ammetto, sono un “normodotato” come si definisce in questo ambiente una persona senza disabilità o amputazioni. Sono un amico dell’associazione G.S.Periscopio (che ha organizzato l’evento) e volontario della Croce rossa del gruppo di Pergine, che negli ultimi anni ha sempre fatto assistenza in ambulanza a questa gara. Quest’anno, essendo il turno già coperto e il meteo molto favorevole, ho voluto partecipare per sentirmi e farmi sentire vicino a questi atleti, far sentire il mio rispetto e stima nei loro confronti.
Le storie di chi in una frazione di secondo ha dovuto ridisegnare la propria vita e le proprie ambizioni sono toccanti, nessuna uguale, nessuna banale, ognuna con la propria evoluzione, ognuna diversa come diverse sono tutte le persone.
Vorrei riprendere le parole di una delle ragazze che hanno vinto la propria categoria: “Abbiamo bisogno che il mondo non dimentichi che siamo disabili!” Ricordarci quindi che se ci sono dei riguardi speciali nella nostra società nei loro confronti non sono le altre persone ad essere discriminate, ma sono i disabili ad avere delle difficoltà.
C’è chi ci è nato e chi ci è diventato disabile. Nessuno ovviamente ha cercato questa condizione ma tutti, almeno in questo contesto, la hanno accettata e hanno imparato a “essere disabili”. Hanno imparato a convivere (la parola più giusta, visto che ci devono vivere “assieme”) con la propria disabilità. Lo hanno imparato perché sono persone forti, con una forte personalità, ma anche forse perché chi li circonda, chi li ama, non li ha soffocati, non li ha protetti ma anzi li ha spronati e liberati dalle catene psicologiche che spesso queste condizioni ti mettono. La fortuna di vivere in una condizione sociale come la nostra, forse tra le migliori nel mondo, con la tecnologia dei giorni nostri e l’attenzione ai disagi, che per fortuna la maggior parte delle persone conserva ancora, devono liberare da quelle catene chi ne è ancora prigioniero.
Si impara da questi ragazzi e ragazze, dai 16 ai 100 anni, che il proverbio “Volere è potere” ha una doppia valenza. (le)