SeP alpino!
Maggio 2018. Trento si riempie di cori e risate, ogni aiuola una tenda, ogni fontana una base: è arrivata la novantunesima Adunata degli Alpini! Eccolo il tanto annunciato fiume festante di penne nere, simpatizzanti di ogni età coinvolti in un carosello di canti di montagna e scoppi di allegria!
Punti di vista come il mio sono privilegiati: con questa divisa rossa addosso ho modo di osservare per ore l’evolversi della situazione. Sono orgoglioso di essere dove sono, di essere anche io un piccolo pezzo di ingranaggio di una macchina gigantesca, che vista da qui non si immagina neppure quanto sia grande.
Le persone che ininterrottamente mi passano davanti provengono da ogni direzione e vanno in ogni direzione, il che dà l’idea di un caos organizzato, quasi un grande cuore pulsante che si contrae e si dilata. Nella confusione della festa ogni piccolo spazio è utile per scambiare qualcosa che rimarrà nei ricordi con chi si ha accanto. È lo stesso se poi non ci si conosce: qui sono tutti amici e il sentimento che prevale è la gioia.
Qualcuno vede la divisa rossa, mia e dei colleghi, e si ferma a fare due chiacchiere, altri tentano di coinvolgerci in un brindisi, ma in questa veste non possiamo (purtroppo) accettare.
Sorrido, non accetto il “fiaschetto di rosso” ma condivido lo spirito con cui me lo porgono, ricambio, misurata, la loro smisurata allegria.
L’occhio attento e vigile mi permette di scrutare i volti ed osservare ciò che mi circonda. I piedi sono messi a dura prova dalle infinite ore di scarponi.
Anche io sono qui per prendermi “cura di loro”. So che farò tutto il mio possibile e so già che cercherò di farlo al meglio prima ancora che accada.
Le storie in strada si intrecciano, da qualche parte della città, in angoli più o meno nascosti qualcuno ha bisogno di noi, si corre trafelati, adesso non c’è tempo da perdere.
Mi hanno assegnato alla squadra che staziona presso il posto medico avanzato e per me era la prima volta in questo ruolo. Ho condiviso lo spazio con medici, infermieri e soccorritori e, in questo ambiente, così preparato a livello sanitario, mi sono chiesto cosa ci facessi io.
Nel momento in cui sono cominciate ad arrivare le prime persone ho avuto la risposta che cercavo. Ogni “paziente” era accompagnato da amici e parenti e il parterre di sanitari non sembrava avere la possibilità di dare loro nemmeno di un’occhiata: la concentrazione dei professionisti era, ovviamente, tutta calamitata sul male fisico della persona coinvolta e vedevo altri volontari passare il tempo con le braccia incrociate, spesso spalla a spalla con i parenti e gli amici, senza però uno sguardo o una parola. Mi sono detto che, a volte, essere concentrati sul voler fare “la cosa giusta”, ma non saper bene cosa dire o fare per riuscirci rende difficile la comunicazione con chi ti sta accanto e la fatica diventa grande.
In tutto questo ho scoperto che la formazione del servizio psicosociale (SeP) non mi aveva lasciato protocolli rigidi da seguire, ma mi aveva dato quella consapevolezza, quella voglia di fare qualcosa per stare vicino alle persone. E, forte di questa consapevolezza, ho passato una giornata ricca di soddisfazioni, di sorrisi, di abbracci.
Il vedere una signora, cui avevo fatto il possibile per rintracciare il marito trasportato in qualche posto medico non identificato, tornare indietro con lui e correre ad abbracciarmi o, le persone, al momento della dimissione venire a cercare proprio me, sono cose che mi hanno scaldato il cuore.
Tenere stretta una mano, mentre l’ansia e la frenesia di chi soccorre si unisce alla paura di chi viene soccorso e sentire che attraverso le nostre dita allacciate scorre la paura, la fragilità, la spossatezza di una vita buttata, sapere che il tuo esserci in quel momento sta facendo la differenza e chi è solo, in quel momento lo è un po’ di meno. A chi mi chiede: “perché lo fai”, ecco il perché! (mb)